31 marzo 2022-7 gennaio 2023 – prorogata fino al 31 marzo 2023
Secondo piano dalle ore 10.00 alle ore 17.30 (ultimo accesso alle ore 17.00)
a cura di Stefano Causa e Patrizia Piscitello
“Per un organismo [il museo] che contiene il passato,
ma si confronta continuamente col presente,
credo che veramente la più grossa contraddizione
sia la pretesa di rimanere immobile”
A. Lugli, L’educazione estetica, 1978
La mostra “Oltre Caravaggio. Un nuovo racconto della pittura a Napoli” (dal 31 marzo 2022 al 7 gennaio 2023 – prorogata fino al 31 marzo 2023), a cura di Stefano Causa, docente di Storia dell’arte moderna e contemporanea presso l’Università degli studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa” e Patrizia Piscitello, responsabile Ufficio mostre e prestiti del Museo e Real Bosco di Capodimonte si sviluppa nelle 24 sale del secondo piano del Museo e Real Bosco di Capodimonte, diretto da Sylvain Bellenger.
In esposizione 200 opere provenienti tutte dalle collezioni permanenti del museo, senza prestiti esterni.
Una mostra, realizzata in collaborazione con le associazioni Amici di Capodimonte Ets e American Friends of Capodimonte, che si propone di rilanciare il dibattito presentando un’altra lettura del ‘600 napoletano, diventato per amatori e storici il secolo di Caravaggio.
L’invenzione del Seicento
Il ’600 napoletano è una ‘invenzione’ recente. È stato riscoperto e definito meno di un secolo fa dallo storico d’arte Roberto Longhi (1890-1970). Secondo lo studioso, il naturalismo di Caravaggio sarebbe la spina dorsale dell’arte napoletana. Gli studi seicenteschi sul Sud derivano, quasi senza eccezione, dalle sue proposte formulate in una serie di saggi che sono stati pubblicati essenzialmente nel secondo decennio del secolo scorso.
Dall’inaugurazione della Pinacoteca di Capodimonte nel 1957 fino ad ora, l’esposizione dei dipinti del ’600 napoletano è stata in gran parte il risultato di quest’analisi. La realtà è più complessa e i curatori della mostra, Stefano Causa e Patrizia Piscitello, sulla base degli studi degli ultimi decenni, propongono di riconsiderare lo schema di Longhi, ormai ampiamente storicizzato, e di ripensare l’intera articolazione di un secolo che non fu solo quello di Caravaggio, ma soprattutto quello di Jusepe de Ribera, uno spagnolo arrivato a Napoli nel 1616, sei anni dopo la morte di Caravaggio.
La mostra “Oltre Caravaggio” porta Ribera, rappresentato nelle collezioni di Capodimonte da opere sacre, mitologiche e nature morte, al centro della scena artistica napoletana.
Presentare la civiltà artistica napoletana vuol dire mettere in giusto risalto gli apporti esterni e gli scambi con gli altri centri, l’invio da fuori di opere e progetti, la residenza in città degli artisti ‘forestieri’. Napoli, infatti, era ed è una grande città portuale, crocevia della vita e della cultura italiana. Nel XVII secolo era diventata una delle megalopoli più popolose del mondo esercitando una profonda influenza sulla cultura europea; la sua storia si presenta come una ricca stratigrafia, fatta di diverse civiltà, popoli e espressioni artistiche che hanno lasciato tracce nel patrimonio artistico e monumentale. Per secoli ha subito attacchi, invasioni e distruzioni, facendo fronte a numerose catastrofi naturali: eruzioni vulcaniche, terremoti, maremoti e pestilenze.
In quest’ottica si può spiegare il ruolo centrale che hanno in questa rassegna, dedicata al XVII e XVIII secolo, lombardi come Caravaggio (1571-1610), emiliani come Giovanni Lanfranco (1582-1647), Domenichino (1581-1641) e Guido Reni (1575-1642), lo spagnolo (ma napoletano d’adozione) Jusepe de Ribera (1591-1652), i francesi Simon Vouet (1590-1649) e Pierre-Jacques Volaire (1729-1799), il bergamasco Cosimo Fanzago (1591-1678), i romani Artemisia Gentileschi (1593-1653) e Gregorio Guglielmi (1714-1773), il belga François Duquesnoy (1597-1643), che aveva collaborato all’altare per il cardinale Ascanio Filomarino (1583-1666) nella chiesa dei Santi Apostoli, imponente macchina realizzata tra il 1638 e il 1647 dall’architetto Francesco Borromini (1599-1667), tra i principali esponenti del barocco romano.
Gli artisti napoletani traevano ispirazione da questi apporti, rielaborando in maniera del tutto personale iconografie, tagli compositivi e utilizzo delle luci, esportando il loro linguaggio in Italia e in Europa. Un esempio tra tutti è Luca Giordano (1634-1705), che, campione della pittura barocca napoletana, viene chiamato a Venezia (1665, 1668), a Firenze (1682-83, 1685) e in Spagna (1692-1702), lasciando traccia sui pittori locali.
Cosa significasse per Caravaggio l’incontro con l’immensa capitale mediterranea, più classicamente antica di Roma stessa, e insieme spagnolesca e orientale, non è difficile intendere a chi abbia letto almeno qualche passo del Porta o del Basile; un’immersione entro una realtà quotidiana violenta e mimica, disperatamente popolare.
R. Longhi, Caravaggio, 1951
La Napoli di inizio secolo
All’ingresso del ’600 la scena napoletana è molto variegata, difficilmente racchiudibile nella definizione “tardo manierismo”. Alla vigilia dell’arrivo del Caravaggio dominano in città pittori ad affresco, imprenditori e scopritori di talenti, come Belisario Corenzio (1558-1646[?]), con cui si forma il giovane Battistello Caracciolo (1578-1635). Spicca, tra tutti, uno dei grandi maestri di secondo ’5oo come Francesco Curia (documentato 1588-1608), la cui Annunciazione, del 1597, Caravaggio (1571-1610) avrà potuto ammirare al suo arrivo a Napoli nella chiesa di Monteoliveto, per la quale il Merisi realizzò la Resurrezione, purtroppo perduta. L’Annunciazione di Curia è qui presentata a confronto con quella di Scipione Pulzone da Gaeta (1544 ca.-1598), manifesto devozionale della Controfirma, e l’altra di Louis Finson (1580-1617), firmata e datata 1612, che apre la storia, anche commerciale, del naturalismo dei cosiddetti “amici nordici” del Caravaggio.
Tra i sodali napoletani del Merisi, certamente Battistello Caracciolo (1578 – 1635) è il più stretto, come dimostra il confronto tra il Cristo alla Colonna, 1620 e la Flagellazione, 1607 di Caravaggio. I rapporti con l’ambiente romano in avvio di secolo sono testimoniati dal San Sebastiano di Domenico Cresti detto il Passignano (1559-1638), pittore fiorentino attivo a Roma e in relazione tangenziale con il verismo caravaggesco. La grande Adorazione dei pastori, 1612-1614 ca. di Fabrizio Santafede (1555-1626 ca.) documenta un aggiornamento del maturo maestro, ultracinquantenne all’arrivo di Caravaggio a Napoli (1606), al “lume” del naturalismo.
Napoli crocevia di culture
L’arte napoletana del primo Seicento riceve un grande impulso grazie alle committenze ecclesiastiche sia degli ordini religiosi sia dei privati, che rinnovavano e arricchivano le cappelle di famiglia. La struttura architettonica ad aula unica di questa galleria, scandita da ambienti laterali, a mo’ di cappellette, ben si adatta ad accogliere queste opere: dipinti, sculture, argenti, ceroplastiche con, in posizione centrale, secondo la liturgia, il ciborio di Cosimo Fanzago (1591-1678) in bronzo dorato, rame dorato, marmi policromi, pietre dure (diaspri, ametista, agata, lapislazzuli) proveniente dalla chiesa di Santa Patrizia a Napoli.
Il monumentale tabernacolo, realizzato per contenere il Santissimo Sacramento nella chiesa, è una vera e propria architettura in miniatura, impreziosita dalla tecnica del commesso marmoreo che imita tralci vegetali, vasi con fiori e uccellini. Iniziato nel 1619 e terminato nel 1623 su progetto di Cosimo Fanzago, l’architetto bergamasco che diede l’impronta al barocco napoletano, costò l’ingente cifra di 5000 ducati, a testimonianza della ricchezza del monastero.
In ambito pittorico coesistono nella Napoli del primo ventennio del Seicento maestri come Luigi Rodriguez ([?]-1607), la cui Trinità è un raro esempio di pittura atmosferica e visionaria in quegli anni, e un manipolo di artisti che, già pochi anni dopo la morte di Caravaggio (1610), combina l’eredità del Merisi con impulsi e istanze diverse.
Nel corso degli anni ’20, accuserà una flessione anche il caravaggismo di Battistello Caracciolo (1578-1635), che rivolgerà il suo interesse alla pittura emiliana e, specialmente alle tele e affreschi del parmense Giovanni Lanfranco (1582-1647) realizzati durante i soggiorni romani, fin dal 1602. Anche Carlo Sellitto (1581-1614), tra i caravaggeschi napoletani della prima ora, guarda alle opere romane di Lanfranco, come testimonia la figura di San Carlo Borromeo. Lanfranco avrà un’importante stagione napoletana e sarà attivo nei principali cantieri cittadini, dal Duomo alla Certosa di San Martino alla Cappella del Tesoro alla chiesa dei Santi Apostoli, a partire dal 1633.
Il naturalismo di stretta influenza caravaggesca comincia a stemperarsi; spingono in questa direzione i lavori del francese Simon Vouet (1590-1649), attivo a Roma dal secondo decennio del secolo, che invia a Napoli la Circoncisione per la chiesa di Sant’Angelo a Segno, qui si confronta la Madonna col Bambino con le sante Maria Egiziaca e Margherita di Giovanni Lanfranco (1582-1647). I nessi con la coeva scena romana tendono ad infittirsi: lo testimoniano le opere mature di Massimo Stanzione (1585-1656), intento a smussare le esperienze del caravaggismo declinandole in una versione temperata dalla conoscenza dei capolavori romani di maestri bolognesi come Guido Reni (1575 –1642) e Domenichino (1581-1641).
Il bolognese Domenico Zampieri detto il Domenichino (1581-1641), che a Napoli lascerà, dal 1631, nella Cappella del Tesoro di San Gennaro dipinti su rame e affreschi, aveva realizzato nel 1615 per la chiesa di San Francesco a Palermo l’Angelo custode. L’iconografia dell’Angelo custode fu un’immagine devozionale di vasta diffusione, come testimoniato nella scultura, forse della bottega dell’intagliatore napoletano Aniello Stellato (documentato dal 1605 al 1643) proveniente dalla chiesa napoletana di SS. Filippo e Giacomo. Andrea Vaccaro (1604-1670), nella produzione pittorica della maturità, dimostra un sensibile adattamento agli elementi di recupero cinquecentesco dei bolognesi attivi tra Roma e Napoli, da Guido Reni (1575-1642) a Domenichino.
Ribera e il primato dello Stile
Sulla base degli studi di Roberto Longhi il ’6oo napoletano è identificato come il secolo di Caravaggio. Ma se sostituissimo al nome del Caravaggio quelli di Ribera e Fanzago? Caravaggio soggiorna a Napoli due volte (ottobre 1606-giugno 1607 e ottobre 1609-inizi luglio 1610, per un totale di 18 mesi), mentre Jusepe de Ribera (1591-1652), spagnolo di nascita, vi arriva nella primavera 1616 e lo scultore e architetto bergamasco Cosimo Fanzago (1591-1678) nel 1608, stabilendosi entrambi in città fino alla morte. I due artisti sono pertanto le personalità cruciali per gli sviluppi della cultura figurativa nel Viceregno, per la loro presenza stabile sul territorio e la formazione di articolate botteghe che lavoravano sui modelli dei maestri.
Lo stile di Ribera, partendo da una esasperata rappresentazione della realtà, si evolve verso un intelligente e appassionato recupero della grande lezione cinquecentesca di Tiziano (1488/1490 – 1576), con ampie stesure di colore e paesaggi luminosi che fanno da sfondo ai personaggi raffigurati, segnando in maniera indelebile tutti i pittori napoletani della sua e delle generazioni successive.
Sono esposti la sua famosa Natura morta con testa di caprone, 1645-1649 ca., l’Eterno Padre, 16261630 in Collezione Borbone, proveniente dalla chiesa della Santissima Trinità delle Monache a Napoli come pure la Trinitas terrestris con san Bruno, san Benedetto, san Bernardino e san Bonaventura, 1626-1630, tra i dipinti sacri più importanti alla fine degli anni venti del ’600 per la complessità dell’invenzione e il virtuosismo nell’esecuzione. Raffigura san Bruno, fondatore dell’ordine certosino, san Bernardino e san Bonaventura, santi legati a ordini monastici, intorno al gruppo centrale della Vergine, Gesù e san Giuseppe. Gli angeli in alto creano profondità e un senso di movimento alla composizione.
Un’intera generazione di maestri locali ha guardato e annotato con cura ogni particolare di questo capolavoro: da Andrea Vaccaro a Pietro Novelli fino a Francesco Guarino.
Un altro capolavoro di Ribera è il San Girolamo e l’angelo del Giudizio, del 1626 proveniente sempre dalla chiesa della Trinità delle Monache. Fu un’opera di capitale importanza per la scena napoletana. Sul lato destro l’inserto del teschio, del volume e delle carte, conferma al livello più alto il talento di Ribera nel dipingere nature morte autonome. Il leone, attributo iconografico del santo, emerge dall’ombra sulla sinistra.
In dialogo sono esposte due opere più antiche di diversa cultura: una tela di eguale soggetto del bolognese Agostino Carracci (1557 – 1602), databile intorno al 1600, e la Disputa sull’Immacolata Concezione del 1529/30 del friulano Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone (1483 o 1484 – 1539), proveniente dalla chiesa dell’Annunciata di Cortemaggiore, in provincia di Piacenza.
Tra il 1610 e il 1611 Ribera aveva soggiornato a Parma, la capitale del Ducato Farnese di Parma e Piacenza, realizzando un perduto San Martino a cavallo per la chiesa di San Prospero. Avrà dunque avuto una familiarità con queste opere, e se il San Girolamo del Carracci poteva fargli intendere i nudi michelangioleschi della volta della Cappella Sistina (1508-12), quello del Pordenone era una premessa alla fisicità antieroica dell’anziano San Gerolamo realizzato dal pittore spagnolo.
All’arrivo di Ribera a Parma, l’artista ufficiale della corte di Ranuccio I Farnese (1569-1622) è Bartolomeo Schedoni (1578-1615). Non è certo se i due artisti si conobbero direttamente, ma il naturalismo con cui sono rese le figure del cieco e del mendicante nell’Elemosina di Sant’Elisabetta (1610-11 ca.) di Schedoni suggerisce una possibile influenza esercitata a Parma da Ribera. Il dipinto raffigura l’attimo precedente al “Miracolo delle Rose” compiuto da Sant’Elisabetta nel 1235. La santa, con i capelli celati nel turbante, porge del pane ad un mendicante e ad un cieco, che rivolge verso lo spettatore i suoi bulbi oculari malati. Elisabetta viene presto scoperta da suo marito, che le chiese di mostrare ciò che nascondeva sotto il mantello per placare i sospetti che stesse rubando un tesoro. Alla sua richiesta, lei rivelò il pane trasformato in rose, prova dell’intervento di Dio. Il bambino in primo piano è forse un’allegoria del “vestire gli ignudi”, uno dei sette atti di misericordia. I colori brillanti e la luce che si sofferma sui corposi panneggi accentuano la drammaticità della scena.
I Trionfi di Bacco
Tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30 del Seicento, sullo stimolo di Ribera, inizia, tra i pittori napoletani, un progressivo recupero delle iconografie e dei cromatismi del grande maestro veneziano del ’500, Tiziano, come si evidenzia nel confronto tra il Sileno Ebbro, del 1626, di Ribera (15911652), e il Trionfo di Bacco di Francesco Fracanzano (1612 – 1656), databile nel corso degli anni ‘30. Il Sileno ebbro, un olio su tela del 1626, raffigura Sileno, un seguace di Dioniso, dio del vino, mentre alza la coppa per accettare altro vino dalla figura alle sue spalle mentre Pan, dio della natura selvaggia, lo incorona con delle viti. L’asino che raglia e l’ambientazione rustica accentuano, ai limiti della caricatura, il ricordo dei baccanali di Tiziano. Si tratta di uno dei capolavori di Ribera, la cui firma si trova sul cartiglio in basso a sinistra strappato dal serpente, simbolo di immortalità.
A questi due capolavori della pittura a Napoli del secondo quarto del ‘600 si accosta una copia, forse ottocentesca, del dipinto dei Borrachos di Diego Velázquez (1559-1660), oggi al Museo del Prado a Madrid. Il soggiorno napoletano del grande maestro sivigliano nel 1630 lascia una traccia nel percorso di allievi di Ribera come Aniello Falcone (1607-1656), nell’intensità espressiva e nelle fisionomie dei personaggi; anche il cosiddetto “Maestro dell’Annuncio ai pastori” (ancora oggi non identificato con un nome preciso nonostante diverse proposte Juan Do, Bartolomeo Passante, Pietro Beato) partecipa di questo clima culturale, e, ancora una volta, si può confrontare con il linguaggio maturo di Ribera.
A lume di notte
La sala offre una piccola antologia di un pittore olandese, Matthias Stom (o Stomer) (1600-1650), formatosi ad Anversa, cresciuto a Roma con i maestri nordici vicini al linguaggio del Caravaggio e morto in Sicilia dopo il 1650. I suoi dipinti con esperimenti a ‘lume di notte’ incontrarono ogni favore sul mercato locale.
Il biennio napoletano del pittore, stretto tra le estati del 1635 e del ’37, contribuì ad arricchire la cultura napoletana: se ne colgono echi, ad esempio, in un maestro come Vaccaro o in alcuni satelliti dello stesso Ribera, dal cosiddetto Maestro degli Annunci ai Fracanzano fino a Giovanni Battista Recco (1615 – 1660).
Nella stessa sala, Stomer, che soggiornò in Sicilia alla fine della sua vita, si confronta con il siciliano Pietro Novelli (1603-1647), detto il Monrealese, e con il fiammingo Anton van Dyck (1599-1641), che soggiornò a Palermo negli inoltrati anni ’20 del Seicento, influenzando i maestri locali con la sua tavolozza chiarissima e ricca di effetti pittorici.
Barocco da boudoir
Nel corso degli anni ’40 del Seicento si affermano botteghe come quella di Massimo Stanzione (1589-1656) e Andrea Vaccaro (1604-1670) anche nella produzione di dipinti da stanza, perlopiù a mezza figura, destinati alla devozione privata.
L’insinuante profanità che trapela da queste figure di sante ed eroine, caratterizzate da una quota di erotismo, indica un allontanamento dal rigore e dalla gravità di maestri napoletani come Battistello Caracciolo (1578 – 1635) e Carlo Sellitto (1581 – 1614). Sotto il profilo dello stile, questi artisti sono tutti dipendenti degli effetti di superficie importati a Napoli da Ribera, combinati alla conoscenza di maestri forestieri o romani che avevano lasciato opere in città: da Simon Vouet (1590-1649) a Charles Mellin (1597-1649) fino ad Artemisia Gentileschi (1593-1653), che ebbe una ricca e fertile stagione napoletana, a partire dal 1630, anno in cui realizzò l’Annunciazione.
In sala Rinaldo e Armida, 1640-1650 di Andrea Vaccaro (Napoli, 1604 – 1670): il dipinto rappresenta un passo tratto dal XVI canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso quando i due compagni di Rinaldo, Carlo e Ubaldo, ritrovano l’eroe nelle isole Fortunate in compagnia dell’amata Armida. Il tema amoroso, trattato in area bolognese (innanzitutto da Ludovico e poi da Annibale Carracci), conobbe un notevole successo nel Viceregno di Napoli a partire dagli anni ’30 del Seicento; numerose sono le versioni eseguite da Finoglio, Cavallino e Giordano.
Purismi nostri
A Napoli il bolognese, Domenichino (1581-1641), attivo dal 1631 nella Cappella del Tesoro di San Gennaro contribuisce a riaccendere, tra i maestri locali, un interesse per il linguaggio classicista degli affreschi di Raffaello (1483-1520) delle Stanze Vaticane. Dal suo lavoro muoveranno Andrea Vaccaro (1604-1670) e Pacecco De Rosa, (1607-1656), soprattutto negli anni della maturità, che si può anche confrontare con il Sassoferrato (1609-1685), maestro marchigiano, allievo a Bologna di Domenichino.
Di Pacecco De Rosa è esposto in sala il Bagno di Diana, 1645 ca., soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (III, 225 – 252): Atteone osserva di nascosto Diana nell’intimità del bagno mentre è accudita dalle ninfe, in un momento di riposo dalla caccia; per questo suo oltraggio sarà punito e tramutato in cervo. Pacecco, con equilibrata grazia, compone una scena che si esalta nella ricerca di un gusto classico e di un “bello ideale”.
Nell’Adorazione dei pastori (1653 ca.) Sassoferrato limita i colori primari – rosso, blu e giallo – alla Vergine, al Bambino e a Giuseppe, mentre rende i pastori, gli animali e gli angeli in tonalità tenui di terracotta e beige. I maestri napoletani mostrano di fare un pezzo di strada con artisti forestieri di generazioni diverse: dal veronese Alessandro Turchi detto l’Orbetto (1578-1649) al fiammingo italianizzato Michele Desubleo (1602-1676), qui è esposta la sua Ulisse e Nausicaa, post 1665 raffigurante l’episodio tratto dall’Odissea (VI, 127–216) in cui Nausicaa, circondata da ancelle, offre una veste a Ulisse, naufragato nell’isola dei Feaci. Le fanciulle sono ritratte mentre stavano giocando a pallacorda, antenato del moderno tennis. La stessa Nausicaa, infatti, ha in mano una racchetta mentre la palla è in basso sulla sinistra. I toni freddi, le carni marmoree e le citazioni da Raffaello, Reni e Domenichino producono un tono languido e aggraziato ben inserito nel filone purista.
Il controllo del disegno e la materia pittorica smaltata costituiscono alcuni dati distintivi di queste nuove esperienze puristiche di cui, a Napoli, risentirà lo stesso Luca Giordano (1634-1705) nel dipinto Madonna del Rosario. Firmato e datato 1657, il quadro è stato dipinto per la chiesa della Solitaria, distrutto all’inizio del ’800. La Madonna porge il rosario a San Domenico. Gli altri santi nella composizione sono Francesco e Nicola da Tolentino sulla sinistra, Caterina da Siena, Teresa d’Ávila ed Elisabetta d’Ungheria sulla destra. Al centro del dipinto due putti recano tra le mani il giglio, simbolo di purezza, e il cuore ardente, attributo di Santa Teresa. I colori smaltati, specialmente nel manto azzurro della Vergine, risentono delle esperienze puristiche sperimentate qualche anno prima da Pacecco de Rosa.
Napoli è un crocevia di culture oltreché uno dei più importanti scali del Barocco. Le collezioni di Capodimonte documentano con dovizia e ricchezza questa trama di incontri, passaggi e contaminazioni.
Ribereschi a passo ridotto
Alcuni maestri, attivi nel secondo trentennio del Seicento, sviluppano invenzioni tratte da Ribera in formato da stanza o da cabinet, riducendo composizioni più ambiziose in dipinti dalle dimensioni contenute e affollandoli di figure terzine (ossia a un terzo della grandezza naturale) dinanzi a paesaggi e a scenografie urbane. Questi maestri furono definiti da Roberto Longhi “caravaggeschi a passo ridotto”, ma, alla luce degli studi che hanno inquadrato Ribera come il pittore di maggiore influenza nella Napoli della prima metà del Seicento, forse la definizione migliore è quella di “ribereschi a passo ridotto”.
Sono, tra gli altri, Aniello Falcone (1607-1656), Andrea De Lione (1610 – 1685), Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro (1609-1675), Paolo Porpora (1617 – 1673); di quest’ultimo è presente in sala un’opera della sua fase matura: la Natura morta con fiori, frutta, uccelli e pappagallo, 1660 ca. Ma non vi è dubbio che, se ci rivolgiamo ai forestieri, anche un prezioso maestro tedesco come Johann Heinrich Schönfeld (1609 – 1684), attivo a Napoli a partire dal 1643, ne facesse parte. Schönfeld è un artista poliedrico, incisore e pittore dall’attenta vena indagatrice, diviene mediatore artistico tra le nuove correnti classiche di Poussin e il lessico barocco di Pietro da Cortona. Durante il suo passaggio a Napoli, non resterà insensibile all’arte di Cavallino (in sala rappresentato da La cantatrice, 1645 ca., Santa Cecilia in estasi, 1645 e Sant’Antonio da Padova, 1645 ca.) e al genere delle “battaglie” di Micco Spadaro. Nell’opera di Schönfeld in sala, Rinvenimento della vera croce, post 1640 le figure spiccano nella penombra della notte, rese come silhouette esaltate dal raffinato gioco di luci.
I rapporti della scena napoletana del Seicento con Genova e Venezia sono suggeriti dal David con la testa di Golia di Giuseppe Diamantini (1623-1705), marchigiano formatosi nella città lagunare, dal Ritratto virile di Bernardo Strozzi (1581-1644) e, tre decenni più tardi, nel 1663, dall’estremo capolavoro firmato del Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto (1609 – 1664) i Predoni e armenti.
Completano la parete due dipinti firmati di Salvator Rosa (1615-1673), in cui il pittore e poeta napoletano dispiega tutta la sua originalità nella trattazione dei temi religiosi. In particolare, La disputa di Gesù tra i dottori diviene una potente galleria di ritratti caratterizzati da un forte vigore espressivo, quasi una sorta di riunione tra pirati chini sulla mappa del tesoro.
Altro filone presente a Napoli nello stesso periodo è quello legato alle stesure morbide e alle dolci eleganze del bolognese Guido Reni (1575-1642), presente in città nel 1612 e nel 1619, e qui rappresentato dal San Rocco, a confronto con i San Sebastiano di Andrea Vaccaro (1604-1670), e del francese Nicolas Régnier (1591 – 1667).