CARAVAGGIO E CARAVAGGISMO IN SPAGNA

Caravaggio, I bari, olio su tela, 1594 (Fort Worth, Kimbell Art Museum) 

 

NAPOLI. Quali sono stati gli influssi caravaggeschi nella Penisola iberica? Come si è diffusa, in quella parte del Vecchio Continente, la lezione del Merisi? A questi interessanti interrogati risponde efficacemente il prof. Massimo Capuozzo, che ringraziamo per aver acconsentito a riportare, integralmente, il suo avvincente saggio:

1. La presenza di influssi caravaggeschi è un episodio importante sebbene in ritardo, nella pittura spagnola del Seicento.
L’intenso naturalismo e il violento chiaroscuro di gran parte della pittura spagnola nella prima metà del Seicento e che danno risalto a personalità dell’importanza di Ribalta, del giovane Velázquez, di Zurbarán e di Murillo, sono stati visti spesso e a ragione in relazione a Caravaggio, considerato maestro e focus di questo particolare momento della storia della pittura spagnola.
A suo tempo Roberto Longhi sottolineò gli stretti contatti tra Spagna e Italia alla fine del Cinquecento, periodo nel quale un nuovo linguaggio artistico, non solo caravaggesco, si diffondeva in tutta l’Europa cattolica.
Questo linguaggio realistico, culminò senza dubbio nella ricchezza poetica di Caravaggio che ha costituito da una parte il prodotto più maturo di tutti i precedenti tentativi di cogliere la concretezza della realtà quotidiana, dall’altra una forza poderosa e vitale che gli permise di condizionare profondamente gran parte della produzione artistica successiva.
Oggi è facile cogliere la portata e il significato del terremoto caravaggesco che scosse i vari ambienti artistici spagnoli nel primo decennio del Seicento. Nei centri principali, Madrid e Toledo, Siviglia e Valencia, la pittura aveva iniziato a esprimersi con un linguaggio verosimile derivato dal manierismo riformato degli artisti che Filippo II aveva chiamato all’Escorial e da uno stabile culto per il gusto veneziano di cui le opere dei maggiori esponenti erano presenti nelle collezioni spagnole.
L’arrivo di dipinti eseguiti dallo stesso Caravaggio e delle numerose copie delle sue opere più famose, la presenza di alcuni dei suoi più stretti seguaci e imitatori, sia personalmente sia rappresentati dalle loro opere che giungevano da Roma, costituivano un elemento innovatore così significativo che non poteva lasciare indifferenti i giovani artisti spagnoli.
In Spagna però non è facile parlare di caravaggismo spagnolo così come si parla di un caravaggismo romano, napoletano, francese o olandese.
In Spagna solo pochissimi pittori di quegli anni avevano soggiornato in Italia, il numero di originali di Caravaggio era limitato e oltretutto erano situati in collezioni reali o aristocratiche alle quali solo pochi privilegiati potevano accedere facilmente; a questo si aggiungeva il fatto che nei testi a stampa e nelle conversazioni di bottega si insisteva sul fatto che le novità di Caravaggio e la sua scandalosa originalità derivassero dal suo invito a copiare la natura.
Tutto questo fece sì che la sua lezione si dimostrasse forse più teorica che pratica.
In Caravaggio i pittori spagnoli intravedevano più un atteggiamento che un modello: un invito a copiare direttamente la natura e non ad imitare le opere del maestro in una sorta di manierismo caravaggesco.
La mancanza inoltre di un ceto borghese e quindi di una committenza laica a fianco di quella ecclesiastica limitò in Spagna l’evoluzione di uno dei generi più fertili del caravaggismo ortodosso, ossia quella delle scene di genere raffiguranti taverne e bordelli, musicanti e giocatori: in altri termini, quel “genere alla Manfredi” allora in gran voga nelle Fiandre, in Olanda e in Francia. In Spagna quel tipo di pittura ricevette un’accoglienza pessima e fu condannata dai teorici.
Cominciamo ora ad osservare la presenza in Spagna di opere originali di Caravaggio.
Nel 1610, l’anno della morte del maestro, ma anche quello in cui la collezione del conte di Benavente, don Juan Alonso Pimentel de Herrera, fino allora viceré di Napoli, giunse a Valladolid: essa comprendeva il Martirio di Sant’Andrea oggi a Cleveland, e una Testa decapitata di vescovo, non identificata, ma dovette essere molto importante perché precedette la grande diffusione in Spagna di questo genere di rappresentazione di martiri.

Nel 1617 giunse in Spagna anche il David e Golia oggi al Prado, portato dal conte di Villamediana, don Luis de Tarsis y Peralta, insieme al Ritratto di giovane con in mano un fiore d’arancio, titolo che rimanda al dipinto oggi a Berlino: iI “David e Golia” del Prado dovette giungere in Spagna abbastanza presto, visto che ne esistono alcune copie antiche.

Non si conosce la data di arrivo in Spagna di altre due magnifiche opere: la Salomé (o Erodiade) con la testa del Battista, sicuramente in Spagna dal 1636 e oggi nel Palazzo reale di Madrid e un Giovane San Giovanni Battista, oggi nella cattedrale di Toledo.

2.Accanto al piccolo patrimonio di opere del maestro in Spagna, si devono ricordare ora le numerosissime copie dei dipinti di Caravaggio che si potevano e alcune si possono trovare tuttora in chiese, collezioni private o musei, o che sono chiaramente citate nei testi letterari del Seicento.
Queste copie avvalorano la fama e il prestigio di Caravaggio che, in tal modo, riceveva un evidente tributo di ammirazione da parte di artisti e trattatisti spagnoli, che spesso però era associato a una certa reticenza da parte di coloro che seguivano una tendenza estetica più idealistica.
Francisco Pacheco (1564 – 1644), facendo riferimento alle copie della Crocifissione di San Pietro della Chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, un’opera allora molto nota a Siviglia, sosteneva la necessità di tenere sempre presente la natura per copiarla fedelmente. Altre copie di questa famosa opera si possono trovare in altre città spagnole, e se ne conosce una che porta addirittura la firma di Francisco Ribalta (1565 – 1628).
In Spagna ci sono copie di altre due famosissime tele di Caravaggio, testimonianza del suo prestigio: l’“Incredulità di san Tommaso”, il cui originale è sicuramente quello di Potsdam, e il “Sacrificio di Isacco”, il cui originale è tuttora sconosciuto, ma del quale esistono numerose versioni sia in Italia sia, soprattutto, in Spagna.

Nel 1646 l’ammiraglio di Castiglia don Juan Alfonso Enriques de Ribera donò al re Filippo IV la splendida “Santa Margherita resuscita un giovane”, oggi al Prado, ritenendola opera di mano di Caravaggio, anche se i più oggi protendono per l’attribuzione al caravaggista, uno dei migliori, Giovanni Serodine. Ma il dibattito su quest’attribuzione è tuttora aperto e in ogni caso il dipinto giunse in Spagna troppo tardi per poter influire sulla fase iniziale del naturalismo spagnolo.

Nel 1605 Borgianni tornò di nuovo in Spagna, dove rimase fino al 1607, anno del suo definitivo ritorno a Roma, dove sarebbe rimasto fino alla morte.
I suoi soggiorni in Spagna gli fornirono un’ampia clientela che continuava ad esigere ordini da lui anche dopo il suo ritorno in Italia.
Così si comprendono le tele per il monastero di Porta Coeli a Valladolid.
In esse Borgianni realizza tele di chiara origine caravaggesca, influenza che si fece sentire nel pittore romano soprattutto a partire dal 1604, nonostante le differenze personali tra i due artisti.
Più complicata è l’attribuzione dell’Autoritratto, che, proveniente dalle collezioni reali, ha suscitato polemiche tra gli esperti.
Bartolomeo Cavarozzi (1590 – 1625) giunse in Spagna nel 1617, accompagnando Giovanni Battista Crescenzi, che avrebbe definito il gusto artistico alla corte madrilena di Filippo III e Filippo IV.
Dopo un soggiorno di quasi due anni, il pittore tornò a Roma nel 1619.
Al Museo del Prado si conserva una sola opera di Cavarozzi: “La Sacra
Famiglia e Santa Caterina” databile tra il 1617 e il 1619. Le diverse repliche conservate di questa composizione, indicano che doveva essere molto apprezzata.

Cavarozzi, dallo stile più pacato e quasi sentimentale, grande ammiratore di Raffaello, possedeva una profonda conoscenza degli ambienti classicisti vicini al Domenichino. Egli introdusse negli ambienti artistici spagnoli uno stile a metà strada tra la realtà immediata e una morbida delicatezza pittorica che trovò numerosi seguaci come si vede in questo dipinto.
In passato alcune opere di Cavarozzi erano state attribuite a Zurbarán e questo fa capire che l’influenza esercitata dal maestro viterbese sul giovane Zurbarán e molte sue citazioni si possono riconoscere anche nella produzione del giovane Murillo.
Cavarozzi esercitò una notevole influenza su vari artisti spagnoli dell’epoca come Eugenio Cajés, di origine italiana e Luis Tristán (1585 – 1624).
Eugenio Cajés de Fuentes (1574 – 1634) è stato uno dei pittori più caratteristici del primo trentennio del Seicento spagnolo e uno dei pilastri fondamentali del naturalismo madrileno.
La sua figura era già molto nota ai suoi tempi, e Lope de Vega, con il quale strinse amicizia e fu legato da comuni interessi artistici, lo cita nell’Alloro di Apollo ed è presente anche nella letteratura artistica successiva.
Nello stesso periodo giunsero in Spagna da Roma molte opere di artisti italiani allievi, imitatori o comunque seguaci di Caravaggio, che contribuirono ad influenzare la pittura spagnola.
Il più importante fu Carlo Saraceni (1570 – 1620), il cui rapporto con i mercanti d’arte spagnoli, aragonesi e soprattutto catalani attivi a Roma è ben documentato e fitto di commissioni.
Nel 1613 Saraceni inviò alla cattedrale di Toledo alcune importanti tele, commissionate per l’occasione dal cardinale Sandoval y Royas, con soggetti specificamente legati a santi toledani: Santa Leocadia in carcere, il Martirio di sant’Eugenio e l’Apparizione della Vergine a Sant’Ildefonso.

Nel suo caso, come in quello di Orazio Borgianni, gli elementi poetici del contrasto caravaggesco tra luci e ombre si fondono con una struttura di base marcatamente veneziana, anch’essa in perfetta armonia col gusto spagnolo.
Queste tele incontrarono così un notevole successo, soprattutto il Sant’Ildefonso, e furono frequentemente copiate.
Un caso a parte in questo traffico di opere tra l’Italia e la Spagna è rappresentato da Jusepe de Ribera uno dei caravaggisti più importanti.

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Ora giungiamo al terzo argomento in cui si tratta dei pochissimi pittori spagnoli che si sono riferiti in modo diretto al mondo di Caravaggio.
Pochi di loro poterono compiere il viaggio in Italia, ma non c’è dubbio che il contributo della pittura italiana sia stato notevole, in particolare della pittura veneta, toscana e lombarda del secondo Cinquecento.
Il primo naturalismo spagnolo non si rifaceva tanto al genio di Caravaggio quanto a Jacopo da Ponte, detto il Bassano, al genovese Luca Cambiaso e al manierismo riformato degli artisti medicei.
A parte Jusepe Ribera che soggiornò a lungo in Italia vi fu tuttavia almeno un artista che sicuramente si recò a Roma ed entrò in stretto contatto con l’inquieta cerchia di giovani artisti che affluivano da tutta Europa e che facevano del Caravaggismo il loro vessillo di libertà.
Si tratta di Juan Bautista Mayno, nato a Pastrana presso Guadalajara, figlio di un cavaliere milanese e di una nobildonna portoghese appartenente all’entourage della principessa di Eboli.
Mayno si formò in Italia, dove trascorse gli anni dal 1600 al 1608 e dove conobbe la pittura di Caravaggio, quella del suo seguace Orazio Gentileschi, e quelle di Guido Reni e di Annibale Carracci.
Quasi tutta la sua opera è di natura religiosa e rientra nel naturalismo tenebrista di Caravaggio e del Gentileschi.
Spiccano due grandi dipinti ad olio, entrambi del 1612, ora al Museo del Prado: l’Adorazione dei Magi, da un lato, e l’Adorazione dei pastori, dall’altro.

In essi si può apprezzare l’influenza del Caravaggismo, che egli conobbe in prima persona durante la sua visita a Roma, anche se ne ammorbidisce i tratti naturalistici e si ricrea nelle trame e nei materiali lussuosi, più in accordo con Gentileschi.

In questi dipinti si apprezza una composizione eterogenea, nonostante sia le pose sia i gesti offrano un’immagine dinamica ricca di azione e di movimento. Il suo realismo si nota, ad esempio, nella Adorazione dei Magi, nella descrizione Baldassarre con un tipo africano perfettamente raffigurato, non come il consueto stereotipo di un europeo, ma dipinto di nero: in questo dipinto Baldassarre è un africano vero.
Da Roma passò anche Luis Tristán, nativo di Toledo. La sua formazione artistica si colloca nel filone dell’esasperato manierismo di El Greco, del quale fu allievo.Durante il suo soggiorno in Italia dal 1606 al 1613, si convertì al naturalismo caravaggesco anche se non perse mai del tutto il gusto per le pose artificiali e le proporzioni allungate, tipiche del suo maestro, assimilò senza difficoltà la ruvida energia delle figure di popolani rappresentati nelle vesti di San Pietro  e San Francesco, proprio come assimilò la violenta luminosità tenebrista in composizioni e soggetti facilmente rintracciabili in Orazio Borgianni e perfino in Tanzio da Varallo che, com’è noto, soggiornò a Roma dal 1610 al 1616, ossia negli stessi anni di Tristán.


Anche Pedro Orrente (1580 – 1645) soggiornò in Italia dal 1604 al 1610. Nella sua opera sono presenti echi caravaggeschi, ma la componente fondamentale del suo stile è di tipo veneziano-bassanesca. Alcuni elementi che potrebbero far pensare a Caravaggio (i nudi violentemente contrastati in alcune delle sue composizioni) derivano più probabilmente da Mayno, che si trovava a Toledo nello stesso periodo in cui vi soggiornò Orrente. Ma Orrente, pur essendo bassanesco nella scelta dei temi e nel trattamento dei paesaggi con luci crepuscolari, nell’esecuzione si distacca dal veneziano, muovendosi più nella direzione del naturalismo tenebrista. Lo aveva osservato già Francisco Pacheco, che ebbe modo di conoscere Orrente durante il suo soggiorno a Toledo nel 1611. Trattandosi di pittura di animali, Francisco Pacheco diceva in tal senso che si trattava di un genere di pittura “accreditato da Pedro Orrente, sebbene differisca nel modo del Bassano e si faccia conoscere per lo stesso naturale”.In opere come il Martirio di San Sebastiano della Cattedrale di Valencia, con un paesaggio veneziano, la modellazione scultorea e l’intenso l’illuminazione mostra la conoscenza dell’opera di Caravaggio o, almeno, dei maestri caravaggisti, interpretati da Orrente in modo simile a come farà il suo contemporaneo Luis Tristán. Anche il suo trattamento del colore è simile alla sontuosità veneziana ridotta a una gamma tenue di tonalità terrose e marrone chiaro, interrotte occasionalmente solo da una strana macchia di verde intenso o rosso e bianco brillante.
Il Martirio di San Sebastiano è l’opera più monumentale di Orrente, in cui si incrociano le influenze italiane presenti nella sua pittura: caravaggista nella forte illuminazione laterale e veneziana nel paesaggio. Per la figura del santo poté avvalersi anche del “Sansone di Guido Reni della Pinacoteca di Bologna, forse conosciuto attraverso un dipinto.

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La quarta sala di questa mostra immaginaria è dedicata a Francisco Ribalta (1565 circa – 1628), catalano di nascita, ma che, formatosi artisticamente in Castiglia, dal 1599, si stabilì a Valencia.
Il suo intenso naturalismo riscontrabile in alcune delle sue opere mature – con la loro illuminazione rigorosamente diretta e il loro pathos dolente e introverso – porta a pensare che in qualche modo conoscesse se non Caravaggio di sicuro le sue opere.
L’esistenza di una copia della Crocifissione di San Pietro firmata da Ribalta sembrerebbe indicare che conoscesse direttamente l’opera del maestro.
È stata avanzata l’ipotesi di un suo viaggio in Italia tra il 1613 e il 1615, oppure tra il 1616 e il 1620, periodi in cui la presenza di Ribalta a Valencia non è per nulla documentata. Quest’ipotesi spiegherebbe perfettamente la sua profonda e autentica umanità, l’analiticità nella rappresentazione degli umili e l’uso decisamente caravaggesco della luce.
Del resto dal 1620, nella fase dunque finale e più matura della sua produzione, Ribalta progredì verso un naturalismo più rigoroso.
A parte assenza di documentazione per gli anni immediatamente precedenti, non solo l’ancora ipotetico viaggio in Italia, nel quale avrebbe conosciuto l’opera di Caravaggio fa evolvere profondamente la sua pittura, ma una piccola copia della famosa Crocifissione di San Pietro di Caravaggio, firmata F. Ribalta, si trova nella collezione dei principi Pio di Savoia a Mombello avvalora quest’ipotesi.
D’altra parte, come osserva Fernando Benito Domenech, «il presunto caravaggismo di Francisco Ribalta, se ammesso, va visto come un prodotto di seconda mano ed eseguito sempre con tecnica veneziana».
Il tono malinconico in Ribalta si era manifestato già prima, ma era sempre legato a ciò che aveva potuto vedere nell’Escorial, che però non lo avvicinavano a Caravaggio né ai suoi tipi umani né il suo disinteresse per l’oggettività.
Lo stesso David Kowal, sostenitore dell’ipotizzato viaggio a Roma negli anni immediatamente precedenti al 1620 e del fatto che Ribalta avrebbe accentuato la sua cupezza primitiva, osserva che “anche sotto l’urto del maestro italiano, l’elemento cupo di Ribalta e la sua tecnica di modellazione porta ancora l’impronta di una qualità caldamente luminosa e fluida, radicata nel suo profondo legame con la tradizione veneziana” e conclude che “in definitiva, il cupo di Ribalta è di carattere più conservatore e meno tragico di quello di Caravaggio“.
Del 1615 è il “San Francesco confortato dall’angelo” del Prado.

Alla fine del Seicento l’iconografia di san Francesco si amplia, sostituendo buona parte dei temi biografici classici con episodi più complessi, soprattutto visioni estatiche, estasi mistiche che si riallacciavano alla nuova estetica controriformata e che prevedevano, nel caso di San Francesco, un nuovo orientamento nella rappresentazione del santo, la cui vita era ed è stata presentata dall’Ordine come un parallelo biografico di quella di Gesù.
Quest’episodio specifico rappresentato nella tela di Ribalta è legato all’apparizione di un angelo musicante nell’umile cella del santo. L’episodio fu rappresentato da Ribalta come un evento straordinario.
Come era consuetudine per Ribalta, concepì la scena grazie a una stampa e partendo da essa, Ribalta ha riflesso il momento come un’esperienza di luce irreale che avvolge e trasforma lo spazio quotidiano del santo.
Il contrasto tra la minuscola candela del frate e l’esperienza luminosa che inonda San Francesco, attribuisce alla luce un ruolo essenziale, legato ai primi naturalisti spagnoli, in particolare Bartolomeo Carducci e alla sua opera “La morte di San Francesco”, oggi al “Museo di Arte Antica” di Lisbona, che Francisco Ribalta intorno al 1620 vide e ammirò.

 

L’opera di Carducci di carattere tenebrista descrive la morte di San Francesco Assisi, nella Porziuncola accompagnato dai suoi confratelli che gli offrono una candela per illuminare il suo passaggio all’altro mondo, nelle mani e nei piedi porta i segni delle stimmate. Il suo corpo è posto su un piedistallo di legno, su un tavolino c’è il sacco, un teschio e le scarpe, oltre a un vassoio, un piatto e una clessidra.
Con Carducci Ribalta condivideva lo stesso senso della pittura, diretta, densa e vibrante, lo stesso approccio alla realtà, che coglie attraverso gli aspetti materici e le qualità di tutti e ciascuno degli oggetti che popolano gli umili spazi, e l’enorme espressività nei volti, reali, vicini nella loro umanità.
Sono aspetti che mostrano Ribalta ugualmente vicino all’opera di Caravaggio, in un momento della sua carriera in cui si intensificano le tenebre e si semplificano le composizioni, che, come in questo caso, facilitano l’impatto visivo dell’immagine.
L’opera fu eseguita per il Convento dei Cappuccini del Sangue di Cristo di Valencia, per il quale Ribalta dipinse anche, nel 1620, una Ultima Cena e un San Francesco che abbraccia il Cristo crocifisso.
Nel 1927 Roberto Longhi suggerì per primo la funzione portante dell’innesto di Bartolomeo di altri innesti toscani, nei confronti del naturalismo spagnolo dei primi anni del secolo, non solo per Ribalta, ma anche per Tristán, Juan de Roelas e di altri dai quali Longhi staccò risolutamente le radici culturali da quelle della pittura violentemente innovatrice, caravaggesca, di Velázquez. Oggi la critica spagnola – più aperta ed insofferente di schemi interpretativi troppo ristretti entro un orizzonte esclusivamente nazionale – ha fatto sua la fondamentale intuizione di Longhi che dovrà solo essere meglio studiata e specificata attraverso l’analisi dei singoli contributi e delle relazioni individuali.


Del 1625 è il Cristo che abbraccia San Bernardo in cui Ribalta raffigura Cristo che lascia per un momento la Croce per fondersi in un abbraccio con San Bernardo di Chiaravalle, fondatore dell’Ordine Cistercense.
La scena è ispirata a una visione mistica del santo, riflessa in uno dei libri devozionali più popolari del periodo controriformato barocco, come il Flos Sanctorum, o Libro della vita dei Santi, di Pedro de Ribadeneyra, pubblicato nel 1599.
Ribalta riduce al massimo il colore per realizzare una scena quasi monocromatica. La luce da sinistra mette in risalto il bianco dell’abito e l’anatomia di Cristo, dando origine a infinite sfumature di avorio che creano un aspetto quasi scultoreo. L’effetto chiaroscurale mostra l’influenza di Caravaggio sull’opera del Ribalta, che sembra ispirarsi anche alle immagini di Sebastiano del Piombo per la potente figura del Cristo.
Quest’opera è una delle più belle della pittura controriformata spagnola e dà un’idea perfetta della mentalità profondamente religiosa prevalente all’epoca.

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Negli artisti nati agli sgoccioli del Cinquecento e all’inizio del Seicento e che indubbiamente rappresentano il punto culminante nella Storia dell’Arte spagnola, l’influenza di Caravaggio è sensibilmente presente in pittori caravaggisti come Francisco de Zurbarán (1598 – 1664), Diego Velázquez (1599 –1660) Bartolomé Esteban Murillo (1618 – 1682).
Sivigliano, contemporaneo e amico di Velázquez, Zurbarán si formò nella sua città natale, allora vivace centro di una cultura figurativa di carattere realistico eccellendo nella pittura religiosa, in cui la sua arte rivela una grande forza visiva e un profondo misticismo.
Gran parte delle sue opere furono eseguite come cicli devozionali per chiese e monasteri di Siviglia e di altre città spagnole, partecipi del sentimento religioso popolare come quelli dipinti per la Merced Calzada a Siviglia del 1629 e quelli dipinti per Nuestra Señora de la Defension a Jerez de la Frontera del 1638-39.
De Zurbarán fu un artista molto rappresentativo della Controriforma. Difficilmente catalogabile con il metro del naturalismo caravaggesco risulta anche la sua opera svoltasi a Siviglia fra l’inizio degli anni Trenta e il 1664, anno della sua morte. Ne scaturisce un naturalismo immobile, di irresistibile fascino arcaizzante, illuminato da una luce ferma e tagliente, che si carica di significati spirituali (la luce che inonda di Grazia Divina), dove la vocazione popolare e devozionale convive con la sofisticata e stilizzata essenza delle immagini.
Influenzato nei suoi primi tempi da Caravaggio, il suo stile progredì e si avvicinò ai manieristi italiani.
Le sue rappresentazioni sono lontane dal realismo di Velázquez e le sue composizioni sono caratterizzate da modellazioni chiaroscurali con toni più acidi dei colori.
De Zurbarán, pur servendosi di un luminismo sintetico di origine italiana, risente di una cultura arcaistica del tutto indipendente da Roma, che trova le sue radici nei movimenti spirituali spagnoli, in particolare degli alumbrados, gli illuminati e nell’esperienza dei grandi mistici, che forniscono spesso l’ispirazione per i contenuti.
Nel 1626 firmò un contratto con la comunità dei predicatori dell’ordine domenicano di San Paolo, a Siviglia in cui si impegnava a dipingere ventuno quadri in otto mesi. Fra queste ventuno opere c’è il Cristo sulla Croce oggi all’ Art Institute di Chicago, opera così ammirata dai suoi contemporanei che il Consiglio Comunale di Siviglia gli propose ufficialmente, nel 1629, di stabilirsi a Siviglia.

In questo dipinto l’impressione della tridimensionalità è sorprendente: Cristo è inchiodato a una grezza croce di legno. Il lino bianco e luminoso che cinge la vita di Gesù, con un sapiente drappeggio in stile già barocco, contrasta drammaticamente con i muscoli flessuosi e ben formati del suo corpo. Il suo viso è appoggiato sulla spalla destra. L’insopportabile sofferenza lascia il posto a un ultimo desiderio: la resurrezione, l’ultimo pensiero verso una vita promessa in cui il corpo, straziato fino allo sfinimento ma già glorioso, lo dimostra visibilmente.
Come nel “Cristo crocifisso” di Velázquez, dipinto intorno al 1630, più rigido e simmetrico, i piedi sono inchiodati separatamente.
A quel tempo le opere, a volte monumentali, cercavano di ricreare morbosamente l’immagine della Crocifissione con attenzione anche al numero dei chiodi. Ad esempio, nelle Rivelazioni di Santa Brigida si parla di quattro chiodi. D’altra parte, e dopo i decreti tridentini, lo spirito della Controriforma si oppose alle grandi messe in scena, orientando gli artisti soprattutto verso composizioni in cui era rappresentato solo Cristo.
Molti teologi sostenevano che entrambi i corpi di Gesù e di Maria dovevano essere corpi perfetti. Zurbarán aveva appreso bene queste dottrine, affermandosi, appena ventinovenne, come un maestro indiscusso.
Il Martirio di San Serapione, è l’ultima opera in cui si nota più smaccatamente il caravaggismo di Francisco de Zurbarán.

Il dipinto fu realizzato nel 1628.
San Serapione (1179-1240) dopo aver partecipato alle crociate e alla Riconquista, nelle file di Alfonso VIII, dopo la battaglia di Las Navas de Tolosa nel 1222 entrò nell’ordine religioso dei Mercedari che facevano voto di dare la vita in cambio della liberazione dei prigionieri. Partecipò a diversi riscatti, nell’ultimo dei quali rimase lui come parte del pagamento per la liberazione di alcuni prigionieri, ma i soldi per il suo riscatto non giunsero in tempo. Il 14 novembre 1240 fu martirizzato dai Saraceni, che lo legarono ad una croce e gli strapparono le viscere; poi gli tagliarono le membra e parte del collo.
Zurbarán firmò un contratto, nel 1628, con le religiose del convento di Nostra Signora de la Merced Calzada e in quella circostanza dipinse il San Serapione.
Zurbarán volle rappresentare l’orrore del martirio senza che nella composizione si vedesse nemmeno una goccia di sangue. Qui, diversamente dal Cristo sulla croce non si intuisce il sogno divino che precede la Resurrezione. La bocca semiaperta non emette alcun grido di dolore mostra uno sconforto intenso, dice attraverso un respiro semplice e terribile, che è troppo continuare a vivere.
Il grande mantello bianco, quasi una trompe l’oeil di panneggi, occupa la maggior parte del dipinto. Se la faccia è irreale, il rapporto tra la superficie totale e quella di questo grande spazio bianco è esattamente il numero aureo.
Il pittore cerca di provocare empatia.
Il San Serapione di Zurbarán ci offre la manifestazione sensibile di un’anima che abbandona la vita nello stesso tempo in cui si abbandona, non trovando più la ragione di esistere. Un’opera cruenta non ci avrebbe mostrato altro che il grado di malvagità degli aguzzini e il loro compiacimento nel fare del male.
Nel 1634 Zurbarán compì un viaggio a Madrid.
Il suo soggiorno nella capitale fu decisivo per la sua evoluzione pittorica. Incontrò l’amico Diego Velázquez, con il quale discusse e meditò sulle sue opere. Potette vedere le opere di pittori italiani che hanno lavorato alla corte di Spagna, come Angelo Nardi e Guido Reni e da quel momento Zurbarán rinunciò, al tenebrismo dei suoi inizi, così come ai capricci caravaggisti un cui esempio può essere visto nel dipinto la “Esposizione 
del corpo di San Bonaventura” specialmente nei volti degli adolescenti situati nella parte a destra del dipinto. I suoi cieli diventarono più chiari e i suoi toni meno contrastanti.

L’opera rappresenta il rito della veglia o dell’esposizione della salma del santo francescano Buonaventura e fa parte di una serie di dipinti su di lui, di cui alcuni sono conservati al Museo del Louvre, ad esempio San Bonaventura al Concilio di Lione, che precede cronologicamente l’Esposizione del corpo.
Dopo che Buonaventura si ammalò, il monaco toscano soffrì di convulsioni così forti che non poté ricevere l’estrema unzione, ma poi l’Ostia passò attraverso il suo corpo, ricevendola così per miracolo.
San Bonaventura ha il volto livido, è vestito con abiti liturgici e un cappello cardinalizio di colore rosso vivo campeggia sulle sue gambe sopra le sue vesti bianche.
La composizione è una delle più audaci e meglio risolte da Francisco de Zurbarán, che di solito era caratterizzata dalla semplicità della disposizione degli elementi del dipinto. Giace in uno scorcio diagonale, attorniato da personaggi disposti a semicerchio intorno a lui, tra cui papa Gregorio X Visconti e re Giacomo I d’Aragona. I volti sembrano studi della natura, per la loro forte individualizzazione e personalità.

Intorno al 1633 Zurbaran si dedicò inoltre, per breve tempo, alla natura morta, realizzando uno dei massimi capolavori del genere, di assoluta purezza: il Piatto di cedri, cesto di arance e tazza con rosa, già a Firenze, nella collezione Contini Bonacossi, dal 1973 a Los Angeles nella Norton Simon Foundation.
Lo stile di Zurbarán comprende sia il naturalismo sivigliano, sviluppato e portato a esiti altissimi per l’impiego del colore, sempre lucido e smagliante anche nelle tonalità scure; sia la tradizione disegnativa del manierismo spagnolo, che porta il pittore a risolvere le sue composizioni in figure di primo piano, dai contorni eleganti e incisivi, nettamente staccate dai fondi neutri o scuri, al di fuori di ogni ambientazione storica.

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Velasquez, ha condiviso per secoli la generale critica negativa verso alcuni pittori del tardo Rinascimento e del Seicento come El Greco, Caravaggio o Rembrandt, che dovettero aspettare tre secoli per essere capiti dalla critica, che aveva invece consacrato altri pittori come Rubens e Van Dyck e in generale gli artisti più conservatori.
La scarsa fortuna di Velázquez dovette cominciare presto finché cominciarono ad ignorarlo perfino in Spagna. La sua opera cominciò ad essere meglio conosciuta al di fuori della Spagna, quando i viaggiatori stranieri in visita nel paese potettero vederla nel Museo del Prado, che iniziò ad esporre le collezioni reali per la prima volta nel 1819: precedentemente, solo coloro che avevano un permesso speciale potevano vedere le sue opere nei palazzi reali.
Lo studio di William Stirling-Maxwell Velazquez e le sue opere, pubblicato a Londra nel 1855 e tradotto in francese nel 1865, aiutò la riscoperta di Velasquez. Si trattava del primo studio moderno sulla vita e sull’opera del pittore.
L’opera di revisione storico-critica di Velázquez coincise con il cambiamento nella sensibilità artistica con i pittori della macchia in Italia e quelli dell’impressione in Francia.
Soprattutto gli impressionisti ne compresero perfettamente gli insegnamenti, in particolare Manet e Renoir, che si recarono al Prado per studiarlo e comprenderlo: quando Manet compì il suo famoso viaggio di studio a Madrid nel 1865, la fama di Velasquez si era già affermata, ma nessuno ne rimase così stupito e si adoperò maggiormente per comprendere e apprezzare la sua arte.

Manet lo definì il pittore dei pittori e il più grande pittore mai vissuto. Velázquez si trova, ad esempio, in Il pifferaio, dove Manet si ispira apertamente ai dipinti di nani e di giullari realizzati dal pittore sivigliano.
Prima del saggio di Stirling-Maxwell regnava una grande confusione fra le sue opere e un’enorme incompetenza sulle sue opere autografe, sulle copie, sulle repliche di bottega o sulle errate attribuzioni: bisogna immaginare che solo sul mercato d’arte di Parigi dal 1821 al 1850, furono vendute circa 147 opere attribuite a Velázquez, di cui solo una, La Dama con il ventaglio, oggi conservata a Londra, è attualmente riconosciuta come autentica dagli specialisti.

Nella seconda parte del secolo Velázquez fu considerato il supremo realista e il padre dell’arte moderna tanto che alla fine dell’Ottocento era interpretato come proto-pittore impressionista.
Il critico d’arte scozzese Robert Alan Mowbray Stevenson, nei suoi due volumi L’arte di Velasquez del 1895 e Velasquez del 1898, studiò i suoi dipinti con lo sguardo di un pittore e trovò numerosi collegamenti tra la tecnica di Velázquez e gli impressionisti francesi.
Ma ora osserviamolo da vicino senza pregiudizi.
Diego Velázquez (Siviglia 1599 – Madrid 1660) è uno dei massimi esponenti della pittura spagnola e innegabilmente uno dei grandi maestri della pittura universale.
Velasquez nacque a Siviglia nel 1599 e trascorse i suoi primi anni nella sua città natale, dove studiò con Francisco Pacheco, apprendendo da lui soprattutto l’arte del disegno, libero invece di seguire il proprio talento in tutto il resto e sviluppò uno stile di illuminazione naturalistico su fondi scuri, influenzato da Caravaggio, ma soprattutto dai suoi seguaci.
Già nei primi anni sviluppò una straordinaria padronanza per la luce e il colore, in cui è evidente il suo interesse a padroneggiare il naturalismo, giungendo alla rappresentazione del rilievo e delle qualità fisiche, materiche dell’oggetto di rappresentazione, attraverso una tecnica chiaroscurale che richiama il naturalismo caravaggesco, anche se è improbabile che il giovane Velázquez abbia potuto conoscere qualsiasi opera di Caravaggio, prima dei suoi viaggi in Italia, mentre è probabile che avesse visto le opere dei caravaggisti.
Sicuramente però, ebbe modo di conoscere le incisioni di “Jacob Matham” che raffiguravano nature morte di origine fiamminga e scene di genere praticate nel nord Italia da artisti come Vincenzo Campi, con la sua rappresentazione di oggetti quotidiani e di popolani: queste prove potrebbero essere state utilizzate dal giovane pittore per sviluppare la tecnica dell’illuminazione chiaroscurale. 


Il primo Velázquez certamente conobbe le opere di El Greco e del suo discepolo Luis Tristán, che praticava un personale chiaroscuro, e del grande ritrattista italiano tuttora poco conosciuto, Romolo Cincinnato, molto apprezzato da Pacheco.
Il San Tommaso del Museo delle Belle Arti di Orleans e il San Paolo del Museo Nazionale d’Arte della Catalogna di Barcellona, mostrerebbero la conoscenza di Juan Esteban di Úbeda e di Romolo Cincinnato.

Nei suoi primi dipinti, la forte luce diretta accentua i volumi e i semplici oggetti che appaiono in primo piano.La clientela sivigliana, principalmente ecclesiastica, richiedeva temi religiosi, dipinti e ritratti devozionali, così la produzione del pittore in questo periodo si rivolse a commissioni religiose, come l’Immacolata Concezione della National Gallery di Londra e il dipinto gemello, il “San Giovanni a Patmos, del Convento dei Carmelitani Calzados di Siviglia, con un senso volumetrico pronunciato e un gusto manifesto per le trame dei materiali; e ancora la Adorazione dei Magi del “Museo del Prado o l’Imposizione della Casula a Sant’Ildefonso del Comune di Siviglia.
Velázquez, tuttavia, occasionalmente si avvicinava alle scene di genere, come avviene nel Cristo nella casa di Marta e Maria alla National Gallery di Londra o alla Cena in Emmaus della National Gallery di Irlanda nota anche come La mulata, di cui una replica, forse autografa, sta all’Art Institute di Chicago che elimina il motivo religioso, riducendolo tutto il dipinto a una scena di genere profana.
Questo modo di rappresentare la natura gli permise di andare a fondo sulla caratterizzazione dei personaggi, dimostrando una grande capacità ritrattistica, trasmettendo la forza interiore e il temperamento di chi è ritratto.
Bodegones sono detti anche nature morte, ma in Spagna il termine oltre rappresentare fiori e frutta, cibo, piante, rocce o conchiglie o utensili da cucina, stoviglie o oggetti d’antiquariato, libri, gioielli, monete, pipe, ecc. in un dato spazio si intendevano anche animali e esseri umani fino ad includere le “scene di genere” indicare animali, altri oggetti. Questo ramo della pittura utilizza solitamente il disegno, il cromatismo e l’illuminazione per produrre un effetto di serenità, benessere e armonia.
Questo genere già presente nell’antichità fu molto apprezzato nell’arte occidentale fin dalla fine del Cinquecento, e diede all’artista una maggiore libertà compositiva rispetto ad altri generi pittorici come il paesaggio o il ritratto. Le nature morte, in particolare quelle eseguite prima del Settecento, contenevano spesso simboli religiosi e allegorici in relazione agli oggetti che rappresentavano.
In Spagna sono considerati bodegones anche le scene di genere.
La prova della prima ricezione di dipinti raffiguranti scene di genere in Spagna si trova nell’opera di un modesto pittore di nome Juan Esteban di Úbeda con il suo Puesto de caza, fruta y verduras o Escena de mercado.
Juan Esteban de Medina (attivo tra il 1597 e il 1635) era un pittore barocco spagnolo poco conosciuto, figlio di Pedro de Medina, anche lui pittore di Ubeta e autore scena di mercato che rappresenta una “Bancarella di caccia, frutta e verdura e che si colloca tra le prime opere del genere firmate in Spagna.

Anche le prime opere di Velázquez furono scene d’interno e di taverna nelle quali egli realizza già pienamente il raffinato e sobrio realismo che caratterizza tutta la sua pittura.
In Due giovani a tavola, del Wellington Museum di Londra, una delle prime opere dipinte da Velázquez a Siviglia l’artista raffigura due giovani poveri a mezzo busto che mangiano a una tavola dimessa, sulla quale ci sono diversi bicchieri di terracotta, arance, pane e altre cose, tutte descritte con inconsueta precisione.

La Cena di Emmaus, nota anche come La Mulatta e la scena della cucina con la Cena di Emmaus”, è attribuito a Velázquez ed è eseguito nel suo primo periodo sivigliano.

Si tratta di un’opera molto problematica: innanzi tutto la datazione che oscilla fra il 1617-1618 e il 1620-1622.
Il dipinto, eseguito su tela, presenta una ragazza dalla carnagione scura e una cuffia bianca in testa.
Sta in piedi dietro un tavolo da cucina e anche in questo caso si tratta di è una mezza figura. Con la mano sinistra prende una brocca di ceramica smaltata, lasciando sul tavolo altri vasi di terracotta e di bronzo, tra cui un mortaio con il pestello mano e un aglio. Sulla parete di fondo un cesto di vimini pende da un chiodo con un tovagliolo bianco. Questi elementi tipici delle scene di genere hanno indotto i critici a mettere in relazione questo dipinto con una delle scene di genere descritte tra i primi lavori di Velázquez.
Nel 1933, durante la pulitura, fu scoperta la finestra sotto una grande ridipintura in basso attraverso la quale si vede Cristo nell’atto di benedire il pane e un uomo barbuto alla sua sinistra, manca un secondo discepolo di cui rimane solo una mano, dato il taglio subito dalla tela in questo lato. La scena così rappresentata, ossia la Cena in Emmaus, trasforma la scena di genere di una cucina in una scena di genere col divino, rendendo un genere sottovalutato nella gerarchia dei generi un’opera piuttosto degna di maggior rispetto, nobilitando la stessa serva, poiché l’apparizione di Gesù risorto ai discepoli di Emmaus è intesa come segno della sua presenza tra la gente comune. A questo proposito lo storico dell’arte Julián Gállego ricorda la famosa affermazione di Santa Teresa D’Avila: «Dio cammina anche tra le pentole».
La finestra sullo sfondo con la scena sacra, invenzione utilizzata anche in Cristo in casa di Marta e Maria”, ha fatto parlare di un quadro nel quadro o di uno specchio, come quello che avrebbe utilizzato molto più tardi in Las Meninas, sebbene il disegno dell’imposta mostri, più chiaramente che nel Cristo nella casa di Marta e Maria, si tratta di un’apertura nel muro che collega la cucina con una stanza dietro di essa.
L’assenza di dati sul materiale pittorico eliminato con la drastica pulitura del 1933 impedisce di sapere quando si è deciso di cancellare la finestra con la Cena di Emmaus, inesistente nella versione di Chicago, e se cancellarla non sia stata una decisione dello stesso Velázquez, poco dopo aver completato il dipinto, il che spiegherebbe l’esistenza di copie prive di quella scena. Ma non si può nemmeno escludere che la finestra, con la conseguente sacralizzazione della scena di genere, sia stata un’aggiunta successiva alla realizzazione del dipinto e forse eseguita da mano altrui: dubbio di chi ritiene impossibile verificare la paternità di Velasquez di quella parte del dipinto.
Vicino per genere alla Cena in Emmaus è Gesù nella casa di Marta e Maria.

Cristo in casa di Marta e María è un dipinto ad olio di Velázquez realizzato a Siviglia all’inizio della sua carriera, datato 1618. Dal 1892 appartiene alla National Gallery di Londra.
Anche questo dipinto riunisce elementi tipici del genere della natura morta con figure assiduamente praticate dal giovane Velázquez e difese dal suo maestro e suocero Francisco Pacheco, perché con esse egli “esercitava la vera imitazione di quella naturale”.
Sulla tavola ci sono due piatti di terracotta con uova e quattro pesci da cucinare, una brocca anch’essa di argilla smaltata nella metà superiore, un peperoncino e un po’ d’aglio, avendo il pittore posto l’accento sul trattamento differenziato della loro consistenza e lucentezza.
Alle spalle della fanciulla, una vecchia, nella quale è stato visto lo stesso modello della Vecchia che frigge le uova, sembra ammonire la giovane, gesticolando con l’indice della mano destra.
Il naturalismo con cui Velázquez tratta questa parte del dipinto pone lo spettatore di fronte a una scena quotidiana, in cui il pittore avrebbe potuto raffigurare qualsiasi cucina sivigliana del suo tempo.
Il dito della vecchia dirige però lo sguardo dell’osservatore verso un riquadro posto a destra in cui si intravede quella che sarebbe la scena principale, posto in secondo piano: in una sala successiva, Gesù dialoga con le sorelle Maria, sedute come su una pedana ai suoi piedi secondo l’usanza femminile dell’epoca, e Marta, in piedi, recriminando l’atteggiamento della sorella.
L’immagine illustra un brano del Vangelo di Luca, dove l’evangelista racconta come, giunto in un villaggio, Gesù fu ricevuto nella sua casa da Marta, che si accingeva a darsi da fare nel suo servizio, mentre Maria era solo intenta ad ascoltare con attenzione le parole del Signore. Marta si lamentò con Gesù, perché sua sorella la lasciava sola con le faccende domestiche, ma Gesù rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi di tante cose e ne basta una sola. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Tre musici è un dipinto ad olio, presumibilmente una delle prime opere conservate del pittore sivigliano oggi è nella Gemäldegalerie di Berlino. Si conoscono quattro copie antiche di questa composizione, di qualità inferiore, una delle quali si trova in una collezione privata a Barcellona.
I tratti del più giovane ricordano quelli di un altro personaggio presente in altre opere della prima fase di Velázquez, anche se in questo caso il trattamento delle masse di colore, stese a spatola e animate solo nella parte intensamente illuminata dalla luce, le rende più aspre e appuntite appena sopra la fronte e in pochi altri punti.
È lui che si rivolge allo spettatore, invitandolo a unirsi all’allegro gruppo di musicisti e bevitori.
Il dipinto fa parte del genere che Pacheco definì figure ridicole con varie e brutte espressioni per provocare il riso.
Due uomini con strumenti musicali cantano mentre il terzo, il più giovane, con la viola sotto il braccio e un bicchiere di vino in mano, attira l’attenzione dello spettatore con il suo sorriso burlesco, indicando che è il vino ad ispirare i musicisti. Dietro di lui una scimmia, con una pera in mano, sottolinea il carattere grottesco della scena.
Il nome dato da Pacheco a questo tipo di dipinti di genere è legato alla denominazione delle osterie o locande sivigliane, probabile quadro d’azione per questi musicisti come la presenza davanti a loro di una tavola con una pagnotta di pane su un piatto indicherebbe un tovagliolo, un bicchiere di vino e un formaggio con un coltello, che servono anche a Velázquez per effettuare uno studio delle diverse consistenze materiche.
La luce intensa proveniente da sinistra, provoca effetti chiaroscurali.
Jonathan Brown ha messo in dubbio le influenze di Caravaggio nella scelta dei temi e dei tipi plebei e nel suo trattamento formale ed ha affermato piuttosto influenze fiamminghe, attraverso le stampe, o attraverso collezioni sivigliane come quella del Duca di Alcalá.
Il Duca possedeva una scena di genere, ma legata più direttamente a Vincenzo Campi che a Caravaggio.
La pittura satirica costituiva, comunque, un genere comune in Italia e nei Paesi Bassi.
La conoscenza di Velázquez dell’opera di Caravaggio, almeno indirettamente e attraverso dipinti di questo genere o dai suoi copisti, è stata invece sottolineata soprattutto nel caso dei Tre Musici, in cui si evidenzia l’influenza dei Bari del Kimbell Art Museum, opera dipinta da Caravaggio fra il 1596-7.

Nei “Tre Musici” si riconoscono anche influenze di Luis Tristán, che aveva viaggiato in Italia e praticato un chiaroscuro personale.
I capolavori di questo genere nel periodo sivigliano, prima della sua partenza per Madrid sono considerati la Vecchia che frigge le uova del 1618 e L’acquaiolo di Siviglia, realizzato intorno al 1620.
Nella Vecchia che frigge le uova Velasquez dimostra la sua abilità nella fila degli oggetti in primo piano grazie a una luce forte ed intensa che mette in risalto le superfici e i materiali.
Il dipinto dal 1955  è entrato finalmente nel Museo di Edimburgo dove si trova tuttora. nel 1957, durante la pulitura, nell’angolo in basso a destra apparve la data del 1618, la stessa data di un’altra opera del pittore, Cristo in casa di Marta e Maria, con la quale condivide il modello dell’anziana e alcuni degli oggetti di natura morta in primo piano.
Il dipinto è una tipica scena di genere che si svolge all’interno di una cucina poco profonda, illuminata da forti contrasti di luci e di ombre.
La luce diretta proveniente da sinistra, illumina esattamente il primo piano, mettendo in risalto con la stessa forza figure e oggetti sullo sfondo scuro della parete, dalla quale pendono un cesto di vimini e alcune lucerne.
Una vecchia con il capo coperto da un fazzoletto bianco cuoce su un fornello un paio di uova, che si vedono nel mezzo della cottura galleggiare nel liquido nella padella di terracotta grazie al punto di vista elevato della composizione.
Con un cucchiaio di legno nella mano destra e un uovo che sta per rompere sul bordo della padella con la sinistra, la vecchia si ferma e alza la testa all’arrivo di un ragazzo che avanza verso di lei con un melone sotto il braccio e una bottiglia di vetro.
Davanti alla donna, in primo piano alcuni oggetti sono descritti con lo stesso punto di vista elevato: una brocca di terracotta smaltata bianca accanto a un’altra smaltata di verde, un mortaio con il pestello, un piatto profondo di terracotta con un coltello, cipolle e peperoncini.
Appoggiato al fornello, risplende un calderone di bronzo.
Gli oggetti dipinti sono stati studiati singolarmente, meravigliosi nella loro unicità, ma non molto integrati nell’insieme come denunciano alcuni problemi di prospettiva e qualche incongruenza nelle ombre che proiettano. In ogni caso è impossibile non apprezzare la finezza nel trattamento dei loro materiali e l’uso sapiente della luce, che è in parte assorbita dai vasi di ceramica e riflessa in quelli di metallo, disposti quasi alternatamente.
L’interesse di Velázquez per gli effetti ottici e il suo trattamento pittorico è evidente nelle uova che galleggiano nel liquido – olio o acqua che sia – in cui riesce a mostrare il processo di cambiamento per cui l’albume trasparente dell’uovo crudo diventa a poco a poco bianco quando si rapprende: un dettaglio questo che indica l’interesse del pittore a catturare il fugace e l’effimero, cogliendo il processo in un momento specifico.
Ma al di là dell’attenzione rivolta a questi oggetti e alla loro percezione visiva, Velázquez ha tentato una composizione di una certa complessità, in cui la luce gioca un ruolo sovrano, connettendo figure e oggetti in piani che si intersecano. Il rapporto tra i due protagonisti della tela è però ambiguo.
I loro sguardi non si incontrano: il ragazzo dirige il suo verso lo spettatore mentre lo sguardo della vecchia sembra guardare di fronte a lei fuori del dipinto, creando così una certa aria di mistero che ha fatto pensare che ciò che è rappresentato sulla tela non sia una semplice scena di genere.
Lo scorcio della testa del ragazzo coincide con quello del ragazzo che riceve la bevanda in “L’acquaiolo di Siviglia”, adottando però un’espressione concentrata, come sopraffatto dall’importante responsabilità che svolge in cucina.
Lo stesso ragazzo ricorda il più giovane dei Tre Musici, ma l’incidenza della luce, qui più sfumata, e l’espressione seria gli conferiscono una dignità e un’attrattiva che quello dei Tre musici non aveva.
La ripetizione del modello rende credibile che si tratti di un apprendista campagnolo che, secondo Pacheco, Velázquez pagava per fungere da modello.
Il tipo umano della vecchia, dallo sguardo smarrito, è probabilmente lo stesso della vecchia che appare in Cristo nella casa di Marta e María, nella quale alcuni critici hanno voluto vedere un ritratto della matrigna del pittore.
Lo storico dell’Arte Julián Gállego ha richiamato l’attenzione sulla quiete che il dipinto emana, ben lontana dal dinamismo delle opere di Caravaggio, con cui alcuni critici, senza grandi difficoltà, lo hanno messo in relazione per il trattamento del chiaroscuro.
Questa sconcertante quiete troverebbe un parallelo solo in alcuni pittori nordici, come Louis Le Nain o Georges de La Tour, entrambi caravaggisti.
Le azioni dei personaggi – scuotere il cucchiaio per non far attaccare il bianco, rompere l’uovo, ravvicinare la bottiglia di vino – sono state bloccate come in un’istantanea e i personaggi sono rimasti immobilizzati, senza più nessun tipo di comunicazione tra loro.
Per questo lo storico dell’arte americano Jonathan Brown capisce che Velázquez ha reso i suoi personaggi come oggetti e li ha trattati nello stesso modo in cui tratta gli oggetti, con distacco e obiettività.
Secondo la tradizionale interpretazione di queste prime scene di genere di Velázquez, ci sono interessanti parallelismi con il “romanzo picaresco”, e nel caso specifico il dipinto sembra una vera e propria illustrazione di un brano di Guzmán de Alfarache, di Mateo Alemán in cui lo scrittore descriveva una vecchia che friggeva delle uova per un ragazzo.
Ma l’atmosfera psicologica inquietante del dipinto, secondo la definizione di Brown, e lo sguardo perso dell’anziana, o la formazione culturale del pittore nella bottega di Pacheco, spingerebbero alla ricerca di intenzioni simboliche con cui Velázquez avrebbe nobilitato il genere della natura morta, disprezzato dai teorici proprio perché privo di un soggetto narrativo, come fa più esplicitamente in Cristo nella casa di Marta e Maria o nella Mulatta con la cena di Emmaus di Dublino, vere e proprie scene di genere col divino.

L’acquaiolo di Siviglia è una delle opere più importanti della giovinezza di Diego Velázquez, dipinta negli ultimi anni del suo soggiorno a Siviglia. Velázquez lo portò con sé a Madrid e lo donò a Juan Fonseca, che lo aveva aiutato a sistemarsi a corte, oggi il dipinto è conservato nel “Museo di Wellington nel palazzo londinese di Apsley House.
Il dipinto ha splendidi effetti: la grande brocca di terracotta cattura la luce nelle sue striature orizzontali mentre piccole gocce d’acqua trasparenti scivolano sulla sua superficie.
Anche questo dipinto è una scena di genere che Velázquez e appartiene ai suoi anni formativi a Siviglia per acquisire in questo modo la completa padronanza dell’imitazione del naturale, come sostiene Francisco Pacheco in “L’arte della Pittura”.
I protagonisti del dipinto sono un vecchio acquaiolo vestito con una mantellina marrone, sotto la quale fa capolino una camicia bianca pulita, e il ragazzo che riceve da lui un bel bicchiere di vetro pieno d’acqua.
Il ragazzo, vestito di nero e con un ampio colletto bianco, inclina la testa, in uno scorcio simile a quello del giovane della Vecchia che frigge le uova, per prendere il bicchiere con gesto serio, senza incontrare occhi. In mezzo a loro, quasi confuso nell’ombra dello sfondo color terra scuro, un altro uomo di mezza età beve da quella che sembra una brocca di porcellana. Il braccio sinistro del vecchio è di scorcio fuori dal dipinto, e appoggia la mano su una grande brocca di ceramica su cui sono tracciati i segni del tornio, tagliata in basso e senza supporto all’interno della tela.
Il liquido trasuda sulla sua superficie e alcune gocce d’acqua brillano.
Davanti a lui, su un tavolo, appare un’altra conchiglia di argilla più piccola, coperta da una tazza di terracotta bianca.
Velázquez insiste sul disegno, la luce diretta creativa della forte modellazione e gli aspetti tattili degli oggetti con maggiore meticolosità che in altri primi lavori, ma sottolinea anche quella tangibilità con la rottura della cornice, privando la brocca in primo piano della sua sede, poiché questa è al di là dello spazio compreso nella tela e situato nello spazio dello spettatore, verso il quale è proiettata la mano del vecchio.
L’acquaiolo, nonostante la sua apparente naturalezza, è il risultato finale di un meticoloso studio del disegno e delle possibilità della pittura di ricreare la natura con procedimenti esclusivamente pittorici.
Velázquez pone lo stesso interesse nel rappresentare i diversi tipi umani, attraverso il contrasto delle età e l’espressione delle loro emozioni, come nell’analizzare le qualità tattili degli oggetti, rispondendo a un interesse scientifico per gli effetti della visione in cui la luce gioca controllata un ruolo fondamentale per il diverso modo di riflettersi nei diversi oggetti.
Velázquez risponde con soluzioni esclusivamente pittoriche, la goccia d’acqua che cola sulla superficie della ceramica, gli scorci o la rappresentazione del volume attraverso la luce e indipendentemente dal loro significato, risponde a problemi ottici e psicologici resi attuali dalla teoria dell’arte italiana, insieme al desiderio di emulare le opere di artisti classici che avevano raggiunto una grande padronanza della rappresentazione del naturale utilizzando soggetti di basso livello sociale.
La brocca coperta da una tazza come coperchio è una sacca di terracotta bianca di Triana; dietro e al centro una coppa di vetro, e in primo piano parte di una brocca scanalata dalle dita del vasaio.
Tenendo conto di quanto affermato dallo stesso Velázquez, il dipinto avrebbe semplicemente come soggetto il ritratto di un acquaiolo, un’occupazione comune a Siviglia.
Ventiquattrenne Velasquez si trasferì a Madrid, dove fu nominato pittore del re Felipe IV e quattro anni dopo fu promosso pittore da camera, la carica più importante tra i pittori di corte.
A questo lavoro Velasquez dedicò il resto della sua vita e questo lavoro consisteva nel dipingere ritratti del re e della sua famiglia, così come altri quadri destinati a decorare le dimore reali o da essere inviati in dono.
La sua presenza a corte gli permise di studiare la collezione di dipinti del re che, insieme agli insegnamenti del suo primo viaggio in Italia, dove apprese sia la pittura antica sia quella del suo tempo, sono state determinanti per l’evoluzione di uno stile pittorico con pennellate veloci e sciolte.
Il pittore di Siviglia soggiornò due volte in Italia: appena trentenne, tra il 1629 e il 1631, visitò Genova, Venezia, Firenze e Roma. Fu un vero viaggio di studio. In Italia Velasquez ritornò vent’anni più tardi, nel 1649, quando ormai era affermato come artista ed era stato nominato Soprintendente alle Opere dell’Alcazar ed Aiutante di Camera di Filippo IV. Ebbe dal re l’incarico di selezionare e di acquistare opere d’arte per l’arredamento e la decorazione del Palazzo Reale di Madrid.
Nell’ultimo decennio il suo stile si fece più abbozzato, raggiungendo una straordinaria padronanza della luce.Questo periodo si aprì con il Ritratto di papa Innocenzo X, dipinto durante il suo secondo viaggio in Italia, cui appartengono i suoi ultimi due capolavori: Las Meninas e Las Hilanderas.
Il Ritratto di Innocenzo X è un dipinto realizzato ad olio su tela nell’estate del 1650 attualmente si trova nella Galleria Doria Pamphili di Roma.
A quel tempo non era comune per i papi accettare di posare per artisti stranieri. In questo caso il pontefice dovette fare un’eccezione perché Velázquez aveva buone referenze: viaggiava in Italia come pittore di Filippo IV, ed è anche molto probabile che Innocenzo X Pamphili avesse conosciuto vent’anni il pittore quando nel 1625, era stato nunzio apostolico a Madrid.
Si narra che il papa, vedendo finito il suo ritratto, esclamasse, un po’ perplesso Troppo vero! anche se non poteva negarne la qualità. Il pontefice regalò a Velázquez una medaglia e una catena d’oro.
Il pittore Joshua Reynolds lo elogiò come il miglior ritratto di tutta Roma (elogio che sarebbe stato confermato, un secolo dopo, da Oscar Wilde.
Lo storico Hippolyte Taine considerava questo ritratto come il capolavoro di tutti i ritratti e dichiarò che una volta visto, è impossibile dimenticarlo.
Il catalogo di Velasquez è composto da circa 120 o 130 opere. Il riconoscimento come pittore universale arrivò tardi, intorno al 1850.
Raggiunse la sua massima fama tra il 1880 e il 1920, in coincidenza con l’epoca dell’Impressionismo francese, per i cui maestri, Velasquez fu un punto di riferimento. Manet si meravigliò del suo lavoro e lo definì un pittore di pittori e il più grande pittore che sia mai vissuto. La parte fondamentale dei suoi dipinti che componevano la collezione reale è conservata al Museo del Prado.
Las Meninas così è conosciuta quest’opera fin dall’Ottocento o La famiglia di Felipe IV è considerata il capolavoro di Diego Velázquez. Terminato nel 1656 corrisponde all’ultimo periodo stilistico dell’artista, quello della piena maturità. Si tratta di un dipinto eseguito ad olio su una grande tela, dove le figure in primo piano sono rappresentate a grandezza naturale. È una delle opere pittoriche più studiate nel mondo dell’arte.
Il dipinto non ottenne una fama internazionale fino al 1819, quando, dopo l’apertura del Museo del Prado, potette essere visto e copiato da un pubblico più ampio. Da allora di esso sono state offerte diverse interpretazioni, sintetizzate da Jonathan Brown in tre correnti principali.
Quella realista, cronologicamente la prima, sostenuta da Stirling-Maxwell e Carl Justi, ha sottolineato la fedeltà del momento catturato con cui il pittore anticipò il realismo della fotografia.
La pubblicazione nel 1925 dell’articolo dedicato a La Biblioteca de Velázquez di Sánchez Cantón, aprì la strada a nuove interpretazioni di carattere storico-empirico basate sul riconoscimento degli interessi letterari e scientifici del pittore. La presenza nella biblioteca del pittore di libri come gli Stemmi di Alciato o l’Iconologia di Cesare Ripa ha stimolato la ricerca di vari significati nascosti e contenuti simbolici a Las Meninas.
Con Michel Foucault e il poststrutturalismo nasce l’ultima corrente interpretativa, di natura filosofica. Foucault scarta l’iconografia e il suo significato e fa a meno dei dati storici per spiegare quest’opera come una struttura di conoscenza in cui lo spettatore diventa un partecipante dinamico nella sua rappresentazione.

Il tema centrale è il ritratto dell’Infanta Margherita d’Austria, posto in primo piano, circondata dai suoi servi, las meninas, sebbene il dipinto rappresenti anche altri personaggi. Sul lato sinistro si vede parte di una grande tela, e dietro di essa lo stesso Velázquez si ritrae mentre lavora su di essa. L’artista ha risolto con grande maestria tutti i problemi di composizione dello spazio, grazie alla sua padronanza del colore e alla grande facilità di caratterizzazione dei personaggi. Il punto di fuga della composizione è in prossimità del personaggio che compare sullo sfondo aprendo una porta, dove la collocazione di un riflettore mostra, ancora una volta, la maestria del pittore, che riesce a far viaggiare lo sguardo degli spettatori attraverso la sua rappresentazione.

Uno specchio posto in secondo piano riflette le immagini del re Felipe IV e di sua moglie Mariana d’Austria, mezzo che il pittore usa per far conoscere ciò che stava ingegnosamente dipingendo, secondo Palomino, anche se alcuni storici hanno interpretato che sarebbe di il riflesso degli stessi re che entrano nella sessione di pittura o, secondo altri, in posa per farsi ritrarre da Velázquez: in questo caso, l’Infanta Margarita e le sue compagne farebbero visita al pittore nella sua bottega.
Le figure in primo piano sono risolte da lunghe pennellate sciolte con piccoli tocchi di luce. La sfocatura aumenta verso lo sfondo, l’esecuzione è meno profonda finché le figure non vengono attenuate. Questa stessa tecnica viene utilizzata per creare l’atmosfera nebbiosa nella parte superiore del dipinto, che di solito è stata evidenziata come la parte più riuscita della composizione.
Lo spazio architettonico è più complesso che in altri dipinti del pittore: è il solo uno dove appare il soffitto della stanza. La profondità dell’ambiente è accentuata dall’alternanza degli stipiti delle finestre e delle cornici appese alla parete destra, nonché dalla sequenza prospettica dei lampadari a soffitto. Questa scena crepuscolare mette in evidenza il gruppo fortemente illuminato dell’Infanta.
Come per la maggior parte dei dipinti di Velázquez, l’opera non è datata né firmata e la sua datazione si basa su informazioni di Palomino e sull’età apparente dell’Infanta, nata nel 1651. È esposta al Museo del Prado di Madrid, dove è entrata in 1819, dalla collezione reale.
La favola di Aracne, popolarmente conosciuta come Le filatrici, è una tela conservata nel Museo Nazionale del Prado.
Quest’opera è una delle massime espressioni della pittura spagnola ed è considerata uno dei capolavori di Velázquez. Rimane una delle sue opere più enigmatiche, poiché non si conosce il vero scopo di questo lavoro.
Secondo la maggior parte degli studiosi l’opera è successiva al secondo viaggio di Velázquez in Italia, nel 1649. Si presume che l’opera sia stata dipinta per un committente privato, Pedro de Arce intorno al 1657, nel suo periodo di massimo splendore.
In primo piano c’è una stanza con cinque filatrici che preparano la lana. La donna a destra che indossa una camicetta bianca è “una chiara trasposizione” di una delle figure della volta della Cappella Sistina. Sullo sfondo, dietro a queste donne e in una stanza che appare più in alto, compaiono altre tre donne riccamente vestite che contemplano un arazzo che rappresenta una scena mitologica.
Per molto tempo si è pensato che dipinto fosse una scena un dipinto di genere in cui era raffigurata una giornata lavorativa nel laboratorio di arazzi di Santa Isabel de Madrid e che questo fosse l’unico significato.
Tuttavia, a causa della doppiezza del dipinto nascondesse un altro significato come in altre tele più significative di Velázquez: Ortega y Gasset o lo storico dell’arte spagnolo Diego Angulo Íñiguez, hanno indicato un simbolismo mitologico.
Oggi infatti si ammette che il dipinto affronti un tema mitologico: la favola di Atena e Aracne.
Aracne tesseva così bene che la gente della sua città cominciò a dire che tesseva meglio della dea Atena, inventrice del filatoio. La scena in primo piano ritrae la giovane donna a destra, girata sulla schiena, intenta a lavorare al suo arazzo. A sinistra, la dea Atena si presenta come una vecchia.
Sullo sfondo è rappresentato l’epilogo della favola.
L’arazzo realizzato da Aracne è appeso alla parete: il suo soggetto è un’evidente offesa ad Atena, poiché Aracne ha rappresentato alcuni degli inganni che suo padre, Zeus, usava per ottenere favori sessuali da donne e da dee.
Davanti all’arazzo si possono vedere due figure. Sono la dea, adorna dei suoi attributi (come l’elmo). Sono disposti in modo tale da sembrare parte dell’arazzo.
Altre tre dame contemplano come la dea offesa che trasformerà la giovane Aracne in un ragno, condannato a tessere in eterno.
Velázquez suddivide l’opera in diversi piani, alla maniera di quei dipinti medievali i cui gruppi devono essere “letti” in un ordine preciso, come se fossero pagine di un libro. Fa passare il nostro sguardo dalla trottola illuminata di destra a quella di sinistra, per saltare sopra quella accovacciata nell’oscurità alla scena sullo sfondo.
Lì, una delle donne si rivolge allo spettatore come sorpresa dalla nostra incursione nella scena. L’occultamento del messaggio è un tipico gioco barocco.
Per quanto riguarda i colori, Velázquez utilizza una tavolozza quasi monocromatica, con strati di pittura sottili e diluiti, applicati in un modo insolito per il suo tempo: molto diluito e con pennelli lunghi e dalla punta sottile. La maestria di Velázquez nel maneggiare i pennelli è superba, poiché è in grado di definire ciò che vuole dipingere con poco materiale e poche pennellate, trasformando un punto in una figura, a seconda della distanza dallo spettatore. Usa una pennellata sciolta, simile a quella degli impressionisti due secoli dopo.
Uno dei punti più notevoli della tecnica di Velázquez è la prospettiva aerea, ottenendo un effetto «atmosferico» simile a quello di Las Meninas: riesce a creare la sensazione che tra le figure ci sia aria che distorce i contorni e li offusca, riesce a creare per catturare lo spazio che copre le figure.
La maestria dell’arte di Velázquez risalta anche nel dinamismo che imprime sul dipinto, dando una sensazione di movimento, soprattutto nel girare della ruota, di cui non si vedono i raggi per la velocità con cui gira e anche nel personaggio di destra, che arrotola la lana così velocemente che sembra avere sei dita.

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Bartolomé Esteban Murillo (1618 – 1682) si formò nella fase del tardo naturalismo, si evolse poi verso formule tipiche del pieno barocco con una sensibilità che talvolta anticipa il rococò in alcune delle sue creazioni iconografiche più peculiari e imitate, come la Immacolata Concezione o il Buon Pastore in figura di bambino.
Personaggio centrale della scuola di Siviglia, con un gran numero di discepoli e seguaci che diffusero la sua influenza fino al Settecento, è stato anche il pittore spagnolo più noto e apprezzato al di fuori della Spagna.
La maggior parte della sua produzione, condizionata dalla committenza, è costituita da opere di carattere religioso destinate a chiese e conventi di Siviglia, ma a differenza di altri grandi maestri spagnoli del suo tempo, coltivò anche la pittura di genere in modo continuo e indipendente per gran parte della sua carriera.
Nella sua vasta produzione ci sono venticinque dipinti di genere, con motivi prevalentemente, anche se non esclusivamente, di bambini.
La prima notizia che si ha di quasi tutti questi dipinti proviene dall’esterno della Spagna, e questo fa pensare che siano stati dipinti su commissione di mercanti fiamminghi stanziati a Siviglia, committenti anche di quadri religiosi come nel caso di Nicolás de Omazur, importante collezionista delle opere del pittore, e destinate al mercato nordico, forse come contrappunto secolare e laico alle scene dedicate all’infanzia di Gesù.
Alcune di esse, come i Bambini che giocano a dadi nella Alte Pinakothek di Monaco, sono già state citate sopra.

Il dipinto di Murillo in un inventario redatto ad Anversa fra il 1698 e l’inizio Seicento fu acquistato da Massimiliano de Baviera per la collezione reale bavarese.
Gli influssi che potrebbe aver subito dal pittore danese Eberhard Keil, giunto a Roma nel 1656, e dai bamboccianti olandesi, non bastano invece a spiegare l’approccio di Murillo al genere, che nella scala delle sue figure, integrate in ridotte campiture paesaggistiche — ma comunque maggiori che nella pittura di Keil, che riempie lo spazio con le sue figure — e nella scelta dei suoi soggetti, puramente aneddotici e riflessi con spontanea gioia, crea un inedito dipinto di genere, nato dallo spirito naturalistico del suo tempo e dall’interesse che la psicologia infantile esercita sul pittore, mostrata anche nella sua pittura religiosa.
Sebbene i suoi protagonisti siano solitamente bambini mendicanti o di umili famiglie, mal vestiti e perfino cenciosi, le sue figure trasmettono sempre ottimismo, in quanto il pittore ricerca il momento felice del gioco o della merenda a cui essi sono intrattenuti.

La solitudine e l’aria di commiserazione con cui ritrasse il Bambino che si pulisce” dal Museo del Louvre, che per la sua tecnica e il trattamento della luce è databile intorno al 1650 o poco prima, scomparirà nelle opere successive, con date che vanno dal 1665 al 1675.


Il confronto tra il Ragazzo che si pulisce del Louvre e un altro dipinto di soggetto simile, ma di epoca successiva, quello che rappresenta una Nonna che disinfetta il nipote, conservato nella Pinacoteca di Monaco, illustra il cambio di atteggiamento: le note di tristezza e di solitudine sono completamente scomparse e ciò che attrae il pittore è lo spirito infantile sempre pronto a giocare, ritraendo il bambino che si diverte con un tozzo di pane e distratto dal cagnolino che gioca tra le sue gambe mentre la nonna si prende cura della loro igiene, magari trasferendo in pittura il vecchio detto bambino 
con i pidocchi sano e bello.
Quella gioia infantile è la protagonista assoluta di un’altra tela di piccolo formato. Con una pennellata vivace e abbozzata il cosiddetto Bambino che ride affacciato alla finestraconservato alla National Gallery di Londra,  senza altro aneddoto che il semplice sorriso aperto del ragazzo affacciato alla finestra dalla quale vede qualcosa che lo fa ridere, ma è nascosta agli spettatori.

Si vede anche nell’opera dell’Hermitage di San Pietroburgo Ragazzo con cane.


Dipinti come Due bambini che mangiano da una scatola per il pranzo e Bambini che giocano a dadi – gioco disapprovato dai moralisti –, entrambi conservati nella Pinacoteca di Monaco, anche se potrebbero essere ispirati anche a detti o racconti picareschi, che non sono stati identificati, non sembrano rispondere a nessun’altra intenzione se non quella di ritrarre con tono amichevole gruppi di bambini che esprimono la loro gioia nel gioco o nel mangiare golosi, e che sono in grado di sopravvivere con le loro limitate risorse grazie alla vitalità che la loro stessa giovinezza dà loro.

Di tono simile, ma forse con un contenuto di trama maggiore, sono i due dipinti conservati nella Dulwich Picture GalleryInvito al gioco della palla, che riflette i dubbi del bambino inviato a fare una commissione quando un altro, dall’aspetto malizioso, lo invita a partecipare al gioco, e i cosiddetti Tre ragazzi o Due monelli e un ragazzo di colore, il cui lieve aneddoto permette al pittore di confrontarsi con varie reazioni psicologiche a un imprevisto: un ragazzo di colore con una brocca sulla spalla, in che Murillo avrebbe potuto ritrarre Martín, il suo schiavo nero abbronzato, nato intorno al 1662, arriva dove altri due ragazzi sono pronti a fare merenda e con un gesto gentile chiede loro un pezzo della torta che stanno per mangiare, al quale uno di loro reagisce divertito finché colui che ha la torta cerca di nasconderla tra le mani con un gesto timoroso.

Con lo stesso tono gentile e aneddotico, attratto dalle persone disagiate e semplici, con le loro reazioni spontanee, in Due donne alla finestra della “National Gallery of Art” di Washington ha ritratto probabilmente una scena di bordello, come fu notato si nota fin dal Novecento.
La cosiddetta Ragazza con fiori della Dulwich Picture Gallery, un tempo considerata un quadro di genere e scambiata per una venditrice di fiori, risponde meglio al genere allegorico e può essere interpretata come una rappresentazione della Primavera, il cui partner potrebbe essere la personificazione dell’Estate nella forma di un giovane coperto da un turbante e spighe di grano, recentemente entrata nella National Gallery of Scotland.
Potrebbero essere i due dipinti che rappresentano queste stagioni dell’anno che Nicolás de Omazur acquisì nel testamento di Justin de Neve, e non sarebbero anche le uniche allegorie dipinte da Murillo, dal momento che Omazur era anche proprietario di un dipinto, attualmente disperso, dedicato a Musica, Bacco e Amore.

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Il giovane Alonzo Cano e altri artisti meno conosciuti quali il valenciano Jacinto Jerónimo Espinosa (1600 -1667) o il frate benedettino Fray Juan Rizi (1600 -1680) continuano ad applicare fedelmente i canoni dell’imitazione della natura e gli effetti di luce ‘tenebristi’ che costituiscono gli elementi base della rivoluzione caravaggesca.
In Spagna non nacque una pittura di genere capace di assimilare la lezione degli eredi di Caravaggio come doveva accadere per alcuni pittori fiamminghi, olandesi o francesi.
Solo nel campo della natura morta si può scorgere, se non un vero contatto, qualche influenza. Più che con Caravaggio, Sanchez Cotán può essere messo in rapporto con i predecessori lombardi del Merisi, o con Luca Cambiaso. Certamente van der Hamen, Antonio Ponce o Juan Labrador ebbero l’opportunità di venire a conoscenza di ciò che avveniva a Roma attraverso Gian Battista Crescenzi che si stabilì a Madrid nel 1616 e che, com’è noto, protesse apertamente gli artisti dei circoli naturalisti.

AUTORE: Massimo Capuozzo

Il testo è originariamente uscito, con le immagini dei principali dipinti citati, in “Salotto culturale”, si può leggerlo cliccando qui.

 

 

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